Ho sempre odiato le code.
Sempre.
Dalle file indiane a scuola,
alle code per entrare in discoteca
(forse perché – adolescente temeraria – lasciavo in macchina la giacca
per evitare un ‘altra fila, per l’appunto, al guardaroba),
a quelle in posta, al gate dell’aeroporto,
a quelle micro che si creano senza un apparente motivo:
per salire e scendere dal tram, per entrare in ascensore.
Le ho sempre viste come una perdita di tempo.
Come un incontro – forzato – con altre persone.
Da buona milanese sempre di fretta,
ho cercato scuse – garbate ed educate – per non farle:
salire alla fermata successiva,
prendere le scale, essere l’ultima ad imbarcarmi e così via.
Ma ora il problema si è ripresentato.
Grande. Gigantesco.
Le code fanno parte ormai da qualche mese della nostra vita.
E così sarà ancora per un po’.
Ho quindi osservato il tutto da un nuovo punto di vista.
“Di necessità virtù” direbbe la mia amica B.,
sta di fatto che ho dovuto imparare a calmare l’attesa del mio turno.
Senza agitarmi.
Senza innervosirmi.
Senza guardare in modo compulsivo l’orologio.
Riscoprire il tempo per fermarsi.
Per fare il punto.
Per guardarsi intorno.
Per rispondere ad una mail.
Per curiosare su Instagram.
Per leggere qualche articolo.
Per riempire il carrello della spesa.
Così da non perdere tempo. Anzi.
La cosa diventa un nuovo tempo. Prezioso.
Trovato. Per poi avere così il tempo – dopo – per fare qualcos’altro.
Questo 2020 non finirà mai di stupirmi e ribaltarmi come un calzino.
E, talvolta, questo non è un male.